Colazione al Wadi Rum. Due gattini rossi di pelo e rossi di sabbia giocano su un materasso, si rincorrono tra le pietre.
La nostra guida ci riporta al villaggio. Un ultimo the, un po’ di frutta da comprare. Un ragazzino cerca di salire su un cammello che deve essere ancora poco addestrato. Litigano. Il cammello è seduto, piange e urla e protesta. Il ragazzo gli gira la testa, rivolta verso le sue zampe posteriori e pesta la corda legata al suo muso, bloccandolo. Finalmente gli sale sopra e se ne va nell’indifferenza degli astanti.
Due bambini scalzi e impolverati stanno giocando con degli spacca polsi, le palline di metallo che sbattono tra loro. Tac tac tac tac tac. Arrivano da dietro l’angolo della casa, annunciati dal suono, e per un attimo mi sembra che portino pioggia. Improbabile.
Sotto questo sole mi stanno uscendo le lentiggini sulle braccia.
Riprendiamo la macchina e ci prepariamo ai 300 chilometri che ci separano da Amman, la capitale. In radio passa Lasciatemi Cantare e finalmente capiamo perché i ragazzi del campo la conoscessero e ce l’avessero cantata appena saputa la nostra origine.
300 chilometri bene o male passano in fretta, e siamo nella periferia di Amman. Mi colpisce un cartellone pubblicitario British Academy School for Girls.
Amman. Amman. Amman.
Come descriverla senza essere maleducata?
Io odio la cannella, riesco a odorarla anche se è l’ultimissimo ingrediente della ricetta, e non mi piacciono le carote.
Chi mi conosce sa che ho un rapporto conflittuale con Atene. Riconosco che sia bella, che possa piacere, ma ogni volta che ci vado ci sto puntualmente male.
Ecco, Atene è una carota, Amman è la cannella.

So che non posso aspettarmi una città delle nostre, e nemmeno la voglio. Ho viaggiato spesso per il Nord Africa e conosco certe differenze. Non do la colpa ad Amman perché giordana o mediorientale. Proprio solo non ci siamo trovate. Ne vedo il fascino, la bellezza. Ma siamo due pezzi di puzzle che non si incastreranno mai.
Colline e colline coperte di case grige, un’immensa scacchiera monocromatica che avvolge le strade a valle. Non esiste un centro vero e proprio, solo una vita più grossa delle altre, un’acropoli (ciao Atene), un anfiteatro romano.
I giordani sembrano nascere con le mani attaccate al clacson e già raggiungere l’albergo è un’impresa. Fuori dai negozi delle voci elettroniche ripetono senza sosta il prezzo dei prodotti, una nenia che dura ore. Le strisce pedonali esistono ma sono così annerite che nemmeno si vedono, e lo sport nazionale è l’attraversamento a caso. Inizio ad allenarmi anche io.
Almeno di fronte all’albergo vendono quei fagottini di pasta ripieni di patate che ho provato ad Aqaba e di cui mi sono innamorata.
Saliamo all’Acropoli, tra gatti morti per le strade e locali che ci danno il benvenuto. Forse c’è qualche regola riguardante i turisti, ma ogni adulto che incontriamo ci dice sempre la stessa cosa Welcome to Jordan, welcome to Jordan, un ritornello giornaliero. I bambini invece sono teneri, ti salutano con un Hello e un sorriso.
L’Acropoli è confusa. La storia della città è meravigliosa, ha visto passare, restare e fuggire tante civiltà diverse, storie, culture.
Ma non c’è tempo per essere pistini. Dei bambini stanno giocando con gli aquiloni in un parchetto poco sotto di noi. Il muezzin inizia a cantare e uno dei bimbi si mette in piedi sul muretto, la città lanciata verso l’alto nella collina di fronte a lui, e allarga la felpa marrone come se fossero delle ali. Amman, per attimo, è sua.
Una ragazzina mi passa di fianco e il suo profumo colpisce il mio naso. Sa di adolescente, come sapevo io alla sua età, profumi comprati con una rivista, fruttati, dolci, pesanti.
Ci aspetta la cena più buona del viaggio. Ristorante in un vicolo, tavoli dentro e tavoli fuori. Ci sediamo, il cameriere ci schiaffa cinque o sei fette di pane sul tavolo, quello sottile e tondo che mangiano qui. Speriamo che la tovaglia di plastica sia pulita.
Prendiamo un mix di tutto, gli diciamo e presto arriva un piatto di hummus, uno di crema all’aglio e uno di sugo con fagioli e cipolle tritati. Ad accompagnare un piatto di falafel, verdure bollite, insalata, cipolle e foglie di menta. Un cameriere gira tra i tavoli con un vassoio pieno di bicchieri di the caldo e si ferma a lasciarcene tre. Niente posate. Si strappa il pane, si separano i due lembi e si fa “scarpetta” dai piatti.
Dopo cena tanti giordani passeggiano con una granita in mano, o bevono il succo della canna da zucchero. Lo vendono molti banchetti. Le canne alte almeno un metro da un lato, e una macchina con un buco in cui infilarle e spremerle. Ma oggi sono troppo piena, lo proverò domani.