Per anni ho creduto di essere stata concepita in Spagna. Poi mia madre, distrattamente, mi ha detto “No, eravamo già tornati dalla Spagna, credo”. Ecco quindi crollare un aneddoto interessante, una possibile origine della mia wanderlust impenitente. Sono invece stata concepita nel triste appartamento in cui ho vissuto i primi tre anni della mia vita. Periferia, traffico rumoroso. Niente di speciale, in pratica.
E per anni ho creduto di aver scelto io il giorno della mia nascita, un giorno prima del compleanno di quel nonno a cui ero così affine, almeno mi dicono. Invece pare che stessi troppo bene dove stavo e, essendo già in ritardo di una settimana, il parto sia stato indotto. Mamma però dice anche che quella notte aveva avuto delle contrazioni; voglio quindi credere che un curioso allineamento dei pianeti abbia fatto incontrare il giorno in cui volevo effettivamente nascere col giorno in cui i medici avevano deciso di tirarmi fuori. Come dire, quando si è d’accordo tutto funziona meglio, no?
Di una cosa sono certa: il 30 maggio 1992 ha dato il via a quaranta giorni di pioggia battente e incessante.
Sono nata a Torino alle 20,15. Papà aveva con sé la solita macchina fotografica e mamma portava ancora i capelli lunghi sotto le spalle.
Me li immagino scendere le scale del palazzo in Via Rossini 3, addosso dei maglioni fuori stagione o forse perfino una giacca. Hanno in mano dei borsoni. Mamma è lenta, appesantita da quei quindici chili che la gravidanza ha buttato addosso al suo corpo altrimenti esile. Escono e non voglio che prendano l’ombrello per coprire la breve distanza dal portone al fuoristrada che li porterà in ospedale e poi porterà me a casa (forse quella mia wanderlust ha effettivamente un’origine) cullata dal ritmico rumore dei tergicristalli e dalle vibrazioni del motore.
Voglio che sentano gli abiti appiccicarsi al corpo, le gocce colare sulla fronte. Voglio che amino e assaporino la pioggia proprio come piace fare a me. Che si riconoscano nel ticchettio incessante che le mie orecchie devono aver subito collegato a “ciò che c’è fuori”, che ad una neonata devono esser parse la normalità. Chissà che stupore deve essere stato, ormai a luglio, aprire gli occhi e scoprire che fuori una grossa palla gialla aveva preso il posto delle nuvole e con esse erano spariti il vento e il cick-ciack delle pozzanghere. Ci sto mettendo quasi 23 anni, ma ancora non l’ho accettato pienamente.
Pioveva, dicevamo, ma sono sicura che c’erano anche le rose. Perché maggio è il mese delle rose e io non aspetto questo periodo solo per festeggiare il mio compleanno, ma anche per poter contemplare il giardino in fiore. Dura poco, giusto un paio di settimane, ma sembra che le piante si mettano d’accordo per farmi un regalo, per celebrare tutte insieme la primavera e la rinascita.
Sono sicura che ci fossero le rose, nel 1992, ma che fossero ormai appassite, i petali caduti, prematuramente sconfitti dalle gocce e il loro profumo annegato nell’umidità.
Perché è questo il dilemma che porto avanti da anni: amare la pioggia vuol dire dover sacrificare qualcosa, che sia un pomeriggio sul terrazzo o un’annata di ciliegie.
Amare la pioggia ed amare le rose sembra un’impresa, ma a maggio, in cortile, con i fiori tra i capelli e gli amici lì per me, dover rientrare in casa perché iniziano a cadere le prime gocce sembra una cosa perfetta e naturale.
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Ti dico solo che ho pianto