Una raccolta dei miei post su Washington. Spizzichi e bocconi, curiosità su questa capitale anomala.
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Qui la gente per parlare di Washington, giustamente, ricorda sempre che è DC. Mi ci devo abituare.
Fa fresco, ma quel tipo di fresco che ti sembra di bere dell’acqua fredda di frigo quando hai proprio sete e caldo. Forse la mia influenza in via di guarigione non ne è contenta ma io sì.
Dopo le dieci di sera Washington è popolata quanto Cuneo alla stessa ora (per i non piemontesi: vuota), ma sappiamo che è una capitale un po’ anomala.
Le terre tra New York e qui sembrano delle wastelands, terre di nessuno. Cantieri, fabbriche, terra smossa, case che sembrano messe a caso e tanta tanta pianura. E cartelloni pubblicitari improbabili. Ma Washington di notte, da lontano, intravista con le sue luci da un ponte e attraverso un incrocio di rampe di autostrada come le vedi nei film, è stupenda.
-State andando a una rievocazione storica?
-No, stiamo solo facendo una passeggiata
Spesso i media ci mostrano solo le facciate, il davanti di monumenti ed edifici importanti. Quello che non vediamo mai è cosa c’è di fronte, che può spesso essere l’esatto contrario di ciò che ci aspettiamo.
Ed è così per la Casa Bianca. Simbolo del potere americano e delle sue politiche spesso discutibili, ogni giorno vede davanti a sé dei piccoli e colorati banchetti di protesta, dei piccoli Davide contro Golia. I temi toccati da queste proteste in pianta stabile sono le troppe guerre portate avanti dagli USA, la poca fiducia nella scienza che sta imperversando e lo stile di vita americano in generale. Tanti piccoli volantini spiegano le ragioni di questi banchetti e le alternative verso cui si può puntare.
Ricordo che dieci anni fa la protagonista era una vecchina che non lasciava mai la sua postazione e mostrava ai passanti le foto degli effetti che l’Agente Arancio aveva avuto sui bambini vietnamiti. Immagini dure da digerire, ma necessarie. Purtroppo questa signora è mancata qualche anno fa, ma davanti alla Casa Bianca c’è ancora qualcuno a protestare, sempre.
Il Washington Monument è estremamente famoso, ma in pochi sanno della sua curiosa (leggi: tragicomica) storia.
Tanto per cominciare, dovrebbe chiamarsi Memorial, perché è stato costruito dopo la morte di George Washington, ma siccome era stato ideato quando il Presidente era ancora in vita si è deciso di continuare a chiamarlo Monument.
Per l’inizio dei lavori sono stati scelti gli infausti decenni centrali del diciannovesimo secolo, e la Guerra Civile ha imposto uno stop non programmato alla costruzione.
Immaginatevi la città in pieno periodo di guerra, ulteriormente imbruttita da questo obelisco costruito a metà.
Ma la lentezza dei lavori era dovuta anche a un altro fatto curioso: alcune delle pietre delle pareti interne del monumento provengono dai diversi stati degli USA, e altre ancora da paesi stranieri. E sono tutte pietre diverse, le più interessanti la giada dall’Alaska e il corallo dalle Hawaii.
Anche il Vaticano aveva mandato la sua pietra, ma questa mossa non fu ben vista da alcuni zeloti protestanti che durante la notte distrussero il dono del Papa. Perché mandare le mie pietre, se verranno poi distrutte? Si chiesero dunque altri Stati e la costruzione rallentò.
Finita la guerra si ripresero i lavori, ma intanto la cava utilizzata prima del conflitto si era esaurita e le pietre provenienti da quella che iniziarono a utilizzare erano di un colore leggermente diverso. Monumento bicolore, dunque.
Ciliegina sulla torta? La punta è fatta di alluminio, all’epoca raro e di lusso, e i fulmini la adorano.
Di fronte al Lincoln Memorial, all’estremità di quella lunga piscina d’acqua che qualcuno ricorderà per Martin Luther King e qualcuno per Forrest Gump, sorgono diversi memoriali dedicati ad alcune guerre combattute dagli USA nell’ultimo secolo.
Anche un’antimilitarista come me non ha potuto non provare qualche emozione davanti alle statue e i nomi dei caduti. E incontrando veterani talmente anziani da dover essere spinti in sedia rotelle mi sono ritrovata a chiedermi “Magari lui ha combattuto tra i miei boschi e le mie valli”.
Il memoriale alla Seconda Guerra Mondiale è il più famoso. Popolato da studenti e veterani con le giacche piene di spille e toppe a ricordare i conflitti in cui hanno combattuto. Un’ala per il fronte atlantico, una per quello pacifico, i nomi delle zone di battaglia principali incise nella pietra.
Il memoriale alla guerra del Vietnam è invece molto più intimo. Così era stato richiesto dal concorso indetto per sceglierne un design. Doveva quasi sparire tra la vegetazione circostante e far riflettere. La vincitrice, una studentessa di architettura di origini asiatiche, ha preso quest’ultima richiesta alla lettera. I muri neri riflettono l’immagine dei passanti, coprendo la loro figura coi nomi dei caduti e scomparsi. Poco più lontano la statua di tre soldati osserva il memoriale, in ricordo dei suoi fratelli.
Forse il memoriale che fa però più effetto è quello dedicato alla guerra in Corea. Tra alberi e piccoli arbusti si aggirano le statue di una decina di soldati, gli sguardi spersi, le armi in spalla. Ci si aspetta quasi che si muovano, che scuotano via i corvi posati sulle loro spalle. Ovunque ci si posizioni ce n’è sempre uno che vi osserva.