Una raccolta dei miei post su Washington. Spizzichi e bocconi, curiosità su questa capitale anomala.
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C’erano già i meme durante la Seconda Guerra Mondiale?
YES.
E quello più famoso è nato dall’unione di una strana scritta Kilroy was here e una facciotta disegnata.
Kilroy era un ispettore navale che aveva preso l’abitudine di incidere la scritta Kilroy was here sui pezzi da lui controllati per combattere il vizio degli operai di spostare la riga fatta col gesso, che veniva di solito usata per indicare fin dove era stato ispezionato il lavoro. Così i soldati americani in giro per il mondo trovavano questa misteriosa scritta nei posti più impensabili delle navi.
Chad era invece la creazione di un fumettista inglese che veniva disegnato associato a novità sulla guerra, elenchi di cosa mancava e satira.
Non si sa bene come questi due elementi si siano uniti, ma durante la guerra i soldati americani lasciavano spesso un Kilroy was here con tanto di Chad come segno di passaggio. Così i soldati che sarebbero venuti dopo di loro lo avrebbero saputo: questo posto è sicuro, ci siamo già stati noi.
Ora tante leggende circondano questo graffito: si dice che lo si possa trovare in luoghi pressoché irraggiungibili. Capanne in Polinesia, dentro l’Arco di Trionfo francese, sulla torcia della Statua della Libertà. Perfino scarabocchiato sulla superficie della Luna.
Guardate bene la nuca di Lincoln.
Non sembra anche a voi di scorgere un profilo?
Leggenda vuole che si tratti del volto del Generale Lee, proprietario terriero che ha combattuto con l’esercito Confederato durante la Guerra Civile. Sta guardando oltre il fiume Potomac, verso il luogo in cui un tempo sorgevano casa sua e i suoi terreni, ora parte dell’Arlington National Cemetery.
Sono una di quelle persone a cui quando viene voglia di fare qualcosa deve farla immediatamente. È stato così per il Giappone. Decisione presa, soldi messi da parte, primo periodo libero prenotato. E quel periodo era quel momento in cui l’estate scivola nell’autunno.
Tanti mi hanno detto Aspetta la prossima primavera per vedere i fiori di ciliegio!
La mia risposta era spesso Mi conosco, la prossima primavera è troppo lontana, probabilmente avrò già altri interessi.
Avevo anche letto che l’autunno giapponese ha il suo corrispettivo dei fiori di ciliegio: i momiji, le foglie degli aceri rossi che sembrano infiammare le colline e i parchi dei templi.
Almeno vedrò quelli, mi dicevo, ma ho sottovalutato l’estate giapponese, che si aggrappa implacabile coi suoi trenta gradi fino a ottobre inoltrato, ben oltre la data del mio ritorno.
Niente momiji, dunque, ma ho fatto bene a non andare in primavera, perché i fiori di ciliegio li ho visti lo stesso, ma in un altro continente.
Il Giappone ha donato a Washington migliaia dei suoi famosi alberi e il caso ha voluto che io fossi lì durante la settimana della fioritura.
Grazie fortuna e l’irrequietezza per avermi regalato un viaggio in più, senza farmi perdere i fiori.
Ciliegi, malattie e resistenza femminile.
Come sono dunque arrivati i ciliegi giapponesi a Washington?
In dono, da parte del sindaco di Tokyo nel 1912. Ma i primi tremila sono arrivati ammalati, e non c’è stato modo di salvarli. L’unico modo per fermare la cosa fu dar loro fuoco. Per quanto terribile, immaginate, un falò di tremila ciliegi. Deve essere stata una vista unica e intensa.
Sappiamo che il Giappone è terra delle buone maniere, quindi il sindaco ha presto mandato un nuovo carico di alberi per sostituire quelli bruciati, questa volta sani. Sono sparsi per la città, ma la maggior parte è raccolta attorno al Tidal Basin. Sono tutti diversi, alcuni alti e fiorenti, alcuni in ritardo, altri ancora piegati a baciare l’acqua.
Negli anni ’40 venne costruito il Jefferson Memorial sulle sponde del bacino. La costruzione di questo Pantheon prevedeva l’abbattimento di alcuni degli alberi. Ma molte donne non erano d’accordo e si incatenarono agli alberi per il loro NO. Alla fine, però, vinse il Memoriale.
Oggi, durante la settimana della fioritura, il bacino è un via vai di turisti e cittadini. E anche loro sono come gli alberi. Tra ragazze vestite come dei confetti che intervistano guardie cittadine, a ballerine in costume di scena sedute su una panchina, a scolaresche che fotografano gli alberi e il Memoriale a Martin Luther King alle loro spalle, non si sa se è più bello osservare i fiori o i passanti.
A Washington al calar del sole si gioca a baseball di fronte al Lincoln Memorial
Le Portrait Galleries sono già belle di loro. Corridoi e corridoi di volti che ci guardano dal passato e centinaia di storie nuove. Ma la Smithsonian National Portrait Gallery di Washington ha qualcosa in più. Photography encouraged dice uno sticker sul muro, e di foto ne ho fatte tante.
L’idea di ritratto di questo museo non si limita al mezzobusto di qualche nobilotto di fine ottocento, ma è associata a quella della rappresentazione, del guardare dentro. Ci sono quadri privi di ogni essere umano, barche minuscole sotto ghiacci e aurore boreali senza neanche un volto da riconoscere.
E tra tutta questa varietà emerge anche la denuncia. Denuncia verso il passato (e presente) razzista
degli Stati Uniti. Così quadri di presidenti si scollano per lasciar posto all’immagine di donne di colore nascoste dietro questi drappi. Le spalle su cui davvero è cresciuta una nazione.
Ma ciò che mi ha colpito di più è una serie di fotografie che invece di aggiungere, come l’arte fa di solito, toglie. Ed è un togliere impietoso, feroce, perché ci mette di fronte a una parte della realtà che spesso non si guarda. Sono foto di linciaggi e impiccagioni sommarie di uomini di colore nei secoli scorsi. Ma appeso agli alberi non c’è nessun cadavere, è stato cancellato. Restano solo i volti dei carnefici che guardano in camera, la frenesia della bestialità fine a se stessa. La morbosità umana ci porterebbe a guardare la vittima penzolante, ma nella sua assenza non ci resta che guardare negli occhi i colpevoli, nella consapevolezza dell’irreparabile, sia noi che loro consci dell’orrore che ha appena avuto luogo.
“I giovani d’oggi non si interessano all’arte, stanno sempre attaccati al telefono”