Nel 2015 frequentavo la Scuola Holden e il corso che seguivo era dedicato principalmente alla creative non-fiction. Si può raccontare la realtà in modo artistico, accattivante, difficilmente distinguibile da un’opera di finzione, ecco il succo. E proprio quell’anno arriva la notizia che il premio Nobel per la letteratura è stato assegnato per la prima volta a un’opera di non-fiction: La guerra non ha un volto di donna, della bielorussa Svetlana Aleksievič.
C’è chi si è lamentato. Si sentiva dire “Pur di non far vincere un romanzo di genere, fanno vincere una giornalista”.
La narrativa non di finzione è sempre vittima di grossi e pesanti stereotipi e spesso la prima cosa che le persone pensano quando se ne parla è puro giornalismo o noiosi saggi. Ma io penso che la narrazione della realtà abbia in sé quell’elemento di verità e vita vera che spesso me la fa preferire alla narrativa di fiction. Uno dei miei libri preferiti è infatti l’Arte delle Lettere, che forse nemmeno un libro è, ma una raccolta di lettere di persone vere, di epoche diverse, mondi diversi. E il mio libro preferito, forse in assoluto, è Generazione Perduta, l’autobiografia di Vera Brittain concentrata sugli anni della prima guerra mondiale.
Ciò che amo cercare nella storia e nella letteratura è quanto l’uomo, alla fine, sia sempre lo stesso, e vedere persone vere avere a che fare con drammi, avventure, emozioni che anche io potrei vivere è una cosa che assume un fascino ineguagliabile per me. Il tutto condito con una forma artistica e ricercata.
La guerra non ha volto di donna si pone in una via di mezzo tra la raccolta giornalistica di interviste e l’opera creativa. In realtà della mano della Aleksievič c’è ben poco. Le voci che sentiamo nel libro sono quasi tutte delle donne intervistate, mentre il vero lavoro, e sforzo, dell’autrice è stato quella di unire i pezzi, fare ricerca, trovare le domande giuste, la giusta sensibilità per avvicinare ogni diversa donna, e lo scrivere pagine sparse qua e là nel libro con riflessioni su temi particolari e aneddoti riguardo la sua ricerca.
Perché ecco cos’è questo libro: un lungo concerto a molte voci su quella demografia spesso dimenticata della guerra. Le donne sovietiche combattenti nella seconda guerra mondiale si sono raccontate alla Aleksievič treanta, quaranta, anche cinquanta anni dopo la fine degli scontri. Le loro voci hanno ancora una freschezza sorprendente, ma sollevano il velo che per troppo tempo ha coperto vergogna, dolore, amore, sofferenze e negazione.
Queste donne raccontano la loro infanzia, gli eventi che le hanno portate a combattere. Ad arruolarsi, a mettersi in prima linea come volontarie e insistere e insistere contro i primi no da parte degli ufficiali. Raccontano di un idealismo per noi difficile da comprendere. Com’è possibile che fragili 15enni con tutta la vita davanti volessero con così tanto fervore sacrificarsi per la loro patria?
Narrano poi dei lunghi anni al fronte, dei pidocchi, dei pantaloni, della loro identità strappata e ricucita, delle perdite e degli amori. Ma soprattutto, parlando del dopo, parlano di come la pace non ha volto di donna.
Perché secondo me è questo l’elemento più doloroso e pensante del libro. Certo, è stato angosciante leggere di ragazze che strappavano i tendini per loro compagni di sventura a morsi per portare via quello che restava di loro, ma la cosa più assurda è stato sapere dei lunghi e lunghi anni di sofferenza che sono toccate a queste donne dopo, proprio perché donne.
Al fronte sono state strappate della loro femminilità e mi sembrava quasi stupido leggere come cercassero in qualsiasi modo di riappropriarsene. Siete in guerra, pensavo, perché dovrebbe importarvi così tanto di ricamare, indossare una gonna o mettervi gli orecchini quando andate a letto?
Ma la guerra privandole della loro femminilità le aveva private della loro stessa identità. Il modo in cui erano state educate precedentemente era stato completamente trasformato nel giro di una notte, tanto da rendere le loro trecce, nominate in quasi tutte le storie, un elemento di riconoscimento rubato con la forza e a lungo agognato.
In guerra le donne erano uomini, o almeno non erano donne. Ma una volta tornate a casa, una volta tornata la pace, il mondo ha subito un’amnesia collettiva. Gli uomini che avevano promesso loro amore tornavano dalle mogli rimaste a casa, le donne che non avevano combattuto guardavano le ex-soldatesse come delle minacce, come delle poco di buono che avevano sedotto i loro uomini al fronte.
Come racconta un’intervistata, se un uomo tornava a casa ferito ma pieno di medaglie, diventava automaticamente uno scapolo d’oro da acchiappare, noi donne se tornavamo ferite eravamo merce da buttare, non valevamo più nulla. Loro, gli uomini, in giro tronfi in divisa con il petto costellato di medaglie, le donne piene di vergogna, tornate alle gonne e al doversi nascondere. Far sapere di aver combattuto è disdicevole, non si addice a una fanciulla.
Questo doppio standard è stato così interiorizzato dalle donne stesse che molte sono state restie a raccontarsi. Alcune volevano lasciare il compito ai mariti perché loro se ne intendono e ricordano le date, altre, anche per colpa del trauma, non volevano proprio parlarne. Non sono io, non ero io.
Quelle donne, quelle ragazze hanno sacrificato tutto ciò che avevano, forse in modo anche un po’ impulsivo, hanno vissuto e subito, pianto e riso, resistito per anni sperando di vedere un giorno la fine, fine che invece non è veramente mai arrivata.
Donne che per decenni avremmo potuto incontrare a passeggiare, fare la spesa, portare a spasso i nipoti e mai avremmo potuto immaginarle alla guida di un convoglio di carri armati, a rimettere budella dentro i feriti, a baciare il loro amato prima di partire insieme (per morire insieme, se mai fosse dovuto accadere) all’assalto, a strisciare tra le bombe per riportare al sicuro un ferito che pesava il doppio di loro. Ma lì erano, donne, in un mondo che non aveva il loro volto, ma che finalmente grazie a Svetlana Aleksievič hanno potuto far sì che la guerra, oggi, abbia anche voce di donna.
Consiglio musicale: le aviatrici sovietiche della seconda guerra mondiale sono estremamente famose, forse le uniche il cui valore è stato davvero riconosciuto. Erano così letali e gli inglesi ne avevano così paura da soprannominarle Night Witches, streghe della notte. I Sabaton sono un gruppo svedese le cui canzoni sono spesso a tema guerra e una delle loro canzoni che preferisco è appunto Night Witches, dedicata a queste aviatrici. Ed è ottima per darsi la carica per iniziare a lavorare!