A Pechino bisogna passare dal metal detector ogni volta che si vuole prendere la metro. Borse incluse.
Ora so come si sente la torta salata quando cucino col forno ventilato. Penso di non aver mai sentito un’afa tale, esacerbata dai grossi edifici quasi postapocalittici e da un cielo con una sinistra sfumatura giallastra. Non so cosa pensare di Pechino. Il nostro incontro è stato difficile. Palazzi su palazzi, autista del pullman che ha passato un’ora a suonare il clacson e indirizzo dell’albergo sbagliato sul navigatore con conseguenti tre inutili chilometri sotto il sole carica con le valigie. Dopodiché un tentativo di riposino allietato dalla donna delle pulizie che non coglie il cartello “non disturbare” appeso alla mia porta e bussa per mezz’ora per, credo, darmi una bottiglietta d’acqua che però non mi dà quando le dico che parlo solo inglese. Grazie.
Non riesco a fare a meno di paragonare la Cina col Giappone, l’unico altro Paese dell’Asia Orientale che io abbia visitato. Ogni tanto, flebile, alle mie narici arriva l’odore che in poco tempo avevo identificato come Giappone, con la sua umidità dolciastra. La Cina, o almeno Pechino, è più caotica, più sporca, più variegata. Sono pochi i punti in comune che ora riesco a vedere.
Ma non riesco a stare ferma e voglio scappare da questo trauma al gusto di umidità e smog. Ho letto di una Pechino antica, gli Hutong, quartieri di una volta ora pieno di fermento, negozi, ristoranti. Scelgo il Wuaoying e mi incammino verso quella che è una sfida inevitabile per ogni viaggiatore in una grande città: la metro. In questo caso relativamente facile, eccezion fatta per i controlli col metal detector. Un biglietto 5 yuan, nemmeno un euro.
Su internet ho letto che è consigliato uscire alla porta D della metro per visitare l’Hutong. Guardo la mappa. A, B, C, F, G. La D è l’unica mancante. Scelgo quindi una lettera a caso e mi va bene, esco proprio al limitare del quartiere. Casine basse, in legno, piene di negozietti, ristoranti e botteghe. Mi sento rinascere. Lì vicino sorge anche il Tempio Lama, ora chiuso, ma che mi saluta coi suoi muri rossi e i tetti dorati oltre il muraglione che lo separa dalla strada.
Trovo un ristornate vegetariano e vengo quasi costretta dal cameriere, che ha bocciato gli altri miei tentativi di ordinare piatti più locali, a prendere l’hamburger ai funghi (buonissimo, a detta sua il piatto forte della casa. L’atmosfera è rilassata, gli altri avventori parlano a bassa voce, i piatti piani di falafel e i bicchieri colmi di colorati succhi di frutta spremuti al momento. Anche se sta tramontando uscire in strada significa prendersi una botta di calore in piena faccia, ma vale la pena fare ancora due passi e buttare un occhio ai negozi. Tanti laboratori di ceramica, che mi tentano parecchio, un negozio/atelier di disegno in cui si più sedere a dipingere decorato con cartoline che dicono “you are beautiful” o “you are loved”. Avevo letto che quest’area era piuttosto “hipster”, ma trovo che lo sia nel modo giusto. In un modo artistico e innovativo.
Si cammina in mezzo alla stretta strada, facendo slalom con i motorini elettrici troppo silenzio i guidati da autisti rigorosamente senza casco che suonano il clacson per farsi sentire anche nelle strette viuzze. Al ritorno passeggio lungo il sentiero non illuminato di un parco parallelo alla strada. Noto le tecniche di sopravvivenza al caldo dei locali: grossi ventagli a paletta e, per gli uomini, pance tonde in bella vista dopo aver tirato su la maglietta. Se ne vedono molti così e sono abbastanza buffi.
Il ritorno in albergo è tranquillo, coccolato dall’aria condizionata della metro. Sento di avere già ingranato certi ritmi, di sapermi orientare quel poco in più da rendermi più serena. La gente è silenziosa, troppo presa dalle serie tv che guarda dal telefono durante il viaggio.
Fuori, ovviamente, l’afa non dà tregua.
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