Giorno 15, Deserto del Gobi
Mi sveglio molto prima della sveglia per un motivo molto umano. Ho bevuto troppo the e mangiato la zuppa prima di andare a dormire, quindi devo andare in bagno. Ma ho paura. Non tanto del buio o di qualche malintenzionato, ma ho una paura quasi ancestrale, del vuoto, del troppo. Un po’ come quella che ti viene guardando un grattacielo.
So che sopra di me c’è un cielo luminosissimo di stelle, forse coperto però di nubi, e tutto intorno il nulla per chilometri e chilometri. E la cosa mi angoscia. Mi era già successo qualcosa di simile a Skyros, uscendo di notte. La Luna e le nuvole creavano luci e colori che sembravano usciti da un quadro dell’Ottocento e mi hanno sopraffatta.
Questo l’effetto del Gobi a una povera viaggiatrice con la vescica troppo piccola.
La mattina, però, col sole, tutto sembra più gestibile. Una colazione veloce con le merendine comprate ieri e ci mettiamo in viaggio per i pochi chilometri che ci dividono dalle Flaming Cliffs, o Bayazang in mongolo, nome che deriva dagli alberi che crescono davanti a queste rocce. Sono di argilla rossa, una formazione che interrompe la pianura con gole, fenditure e saliscendi che percorriamo a piedi.
Sui punti più alti troviamo delle montagnole di rocce e Oyuna ci spiega che sono tipiche della Mongolia. Sono come delle preghiere alla natura. Si gira tre volte in senso orario attorno alla montagnola e poi vi si tira sopra una pietrolina esprimendo un desiderio. Ne troviamo almeno tre o quattro in questa breve passeggiata.
Le Flaming Cliffs sono anche il sito in cui Roy Chapman ha trovato i primi fossili di dinosauro. Da lì è nata una corsa al reperto che ha portato cinesi, poi russi e infine mongoli a scavare l’area, trovando dinosauri marini, uova, dinosauri di terra e perfino reperti preistorici umani. Non vedo l’ora di vedere alcuni di questi ritrovamenti al museo di Ulaanbaatar.
Ci rimettiamo in viaggio: destinazione le dune di Khongor.
Prima però tappa in un villaggio, una visione quasi assurda: un paesino perfettamente funzionante nel bel mezzo del nulla. Benzinaio, supermercatini, orti, grazie a un laghetto nelle vicinanze. E perfino un museo sui dinosauri. Sono molti i bambini in giro e Oyuna mi spiega che i figli dei nomadi durante l’hanno vanno a scuola e vivono in dormitorio, mentre d’estate tornano dalle famiglie. Questo villaggio è bellissimo, nella sua semplicità.
Quando il deserto sabbioso ci appare davanti sembra quasi finto. Non è una lunga distesa di sabbia, ma una lunghissima lingua di dune che si estende per più di cento chilometri da est a ovest tagliando in due la pianura verde. È come se tra l’erba qualcuno avesse tracciato una riga gialla.
“Volete stare al campo per turisti o alla guest house sotto le dune?”, ci chiede Oyuna.
La scelta è facile: guest house. Vogliamo assaporare la vita da campo vera dei mongoli di oggi senza moine turistiche. Arriviamo che è ora di pranzo e veniamo subito invitati nella tenda principale. È un posto abitato, e si vede. I contrasti sono forti. La ger è dipinta e decorata nello stile tipico, con colori accessi. Sul lato sinistro troneggia la sella e la frusta dei cavalieri, che nel passato indicava anche il lato in cui dovevano sedere gli uomini.
A pochi centimetri, sotto la tv, dei pupazzetti di My Little Pony. Sopra la mia testa agganciato al legno c’è un braccialetto di Frozen. Al centro della tenda, contro la parete, un grandissimo porta foto è pieno di foto di famiglia e in centro svettano le statuine di cammello, pecora e cavallo, a onorare gli animali che vengono allevati, insieme alle capre, sulla proprietà.
I cavalli. E il loro latte fermentato.
Ci viene subito offerto e io non riesco ad andare oltre le due sorsate. Non è cattivo, ma ricorda uno yogurt acido e liquido con un retrogusto insolito. Preferisco non andare oltre e passo la tazza a Prit, mentre sgranocchio un paio di crostini dolci. Perché ci sia questo latte ci devono essere dei puledri, che stanno sdraiati o a capo chino fuori dalle tende. In questa posizione perché legati a terra con una corda corta che non permette loro nemmeno di alzare la testa.
Le madri, dietro di loro, sono impastoiate su tre zampe. Oyuna mi spiega che sono legati perché non se ne vadano in giro durante il giorno e possano essere munte, ma che di notte vengono lasciati liberi. Voglio crederle.
La mungitura è un meccanismo quasi crudele. Il puledrino viene liberato, portato dalla madre, gli viene permesso di fare un paio di poppate e poi, una volta stimolate le mammelle, viene tolto, sostituito da una donna che munge la giumenta. Prende poco latte, però, e si passa presto al puledro successivo.
Anche i cammelli non si risparmiano dal dare spettacolo. Uno di loro è malato e viene portato fuori dal gruppo per la medicina. Questa medicina consiste in un beverone verde di erbe buttato direttamente in gola dell’animale che viene tenuto seduto per terra e con la bocca spalancata rivolta al cielo da almeno quattro persone, la corda che passa attraverso il suo naso ben tesa.
L’animale fa però ancora storie quindi tutti insieme, con l’aiuto anche di Oyuna, spingono il cammello sul fianco e gli legano velocemente le zampe. L’animale sembra quasi tramortito, depresso. Non reagisce più, la faccia abbandonata sul terreno. Altro beverone e puntatura, e libero.
Questa scena mi turba. Ho visto molti maltrattamenti di animali in paesi di questo tipo, in cui gli animali sono parte della vita di tutti i giorni, ma visti di più come oggetti che come creature. Ma in questo caso si trattava di cure mediche, e ho visto veterinari in Italia strattonare non meno cani o gatti.
Dopo pranzo, però, i cammelli che stanno bene finiscono in passeggiata con noi sopra. Ero già stata su un dromedario, molti anni fa, ma il cammello, con le sue alte gobbe è diverso e alquanto buffo.
Veniamo portati verso le dune e scopriamo un corso d’acqua quasi asciutto circondato da un ripido muraglione di roccia. Dall’alto dei cammelli vediamo diverse ossa, come i tanti teschi che abbiamo avvistato dall’auto oggi. Chi muore qui, qui resta.
Siamo vicino alla sabbia, bisogna salirci. Dopo il giro in cammello partiamo per salire sulle dune. Alla domanda di Oyuna
“Volete salire sulle dune più alte o quelle medie?”
Rispondiamo più alte senza pensarci tanto, ma appena mi metto in cammino per la salita me ne pento. La duna è immensa, il tracciato dei piedi dei turisti passati prima di me si inerpica sulla sua facciata ripidissima. Dopo un po’ mi arrendo, e mi siedo al sole con Oyuna mentre Prit prosegue la salita.
Oyuna mi racconta che fa la guida da dieci anni e le piace, è molto diverso dal lavoro di professoressa che ha durante l’anno. Ha tre figli, tutti e tre con un lavoro, che però anche se vicino ai trenta non sono ancora sposati. Ulaanbaatar non le piace più. Quando studiava lì da giovane c’erano poche macchine e le piaceva, ma ora è troppo affollata e troppo inquinata, sopratutto in inverno, per i suoi gusti. Ha vissuto per otto anni in un villaggio proprio oltre le dune che da qui non possiamo vedere, il villaggio natale di suo marito, ma il lavoro era poca e ha dovuto spostarsi a Dalanzadgad, anche se le piace meno.
Torniamo al campo che sono quasi le sette di sera. Decido di sedermi a scrivere il day by day, almeno fino a questa parte del giorno, sotto un gazebo mentre Prit vicino a me gioca a solitario. Vedo uno dei puledri, quello bianco con un taglio sul collo, venire portato lontano dagli altri e fatto coricare. Ora della medicina, penso, ma Oyuna viene a dirci che lo stanno per marchiare. Noto solo allora un piccolo fuocherello acceso vicino al puledro, e sua madre che cammina nervosamente lì vicino e chiama nitrendo. Questa era la vita vera della Mongolia, del Gobi, che volevo vedere. Forse non ne ero del tutto pronta, ma ciò che è reale è reale, e va conosciuto.
Ne vediamo il momento esatto. Il padrone, che quando ha a che fare con gli animali indossa una giacca blu e strisce riflettenti bianche, corre verso il fuoco e ne tira fuori due ferri. Senza aspettare un secondo preme il primo contro la natica del puledro, da cui sale una fumata bianca. Una donna al suo fianco versa immediatamente dell’acqua sopra la bruciatura. Stessa cosa fatta anche sulla spalla anteriore, col puledro che agita le zampe al contatto. Subito libero. A saltellare vicino alla madre. E avanti il prossimo.
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