Giorno 16, Gobi
Mi alzo per prima in tutto il campo. Gli animali, pecore, capre, cammelli e cavalli, sono scomparsi. Sembra strano che riescano, e vogliano, ritrovare la strada di casa da così lontano.
Oggi è l’ultimo giorno di tour del Gobi. Dopo una veloce colazione nella ger partiamo alla volta della gola di Yul, dove, a volte, il fiume resta ghiacciato fino a luglio. Ci aspettano quasi 200 chilometri di sterrato, costeggiando le dune, passando tra cespugli sempre più alti. Avvistiamo un laghetto salato e Oyuna ci fa assaggiare una pianta che sa di aglio e cipolla insieme. Arriviamo verso l’ora di pranzo in un villaggio, dove scopro una caratteristica della ristorazione tutta mongola: anche se nel menù ci sono diversi piatti, il ristorante al momento ne può preparare solo alcuni. Inizia quindi una sfilza di:
“Vorrei questo”
“Non c’è”
Il paese sembra fatto apposta per i turisti: davanti a ogni area o locale c’è un cartello verde in più lingue che spiega cosa abbiamo davanti. Due ristoranti, i mini market tutti in fila.
È un villaggio piccolissimo, ma non manca un tempio, con due cani di pietra a presidiarne l’ingresso e tante preghiere girevoli incastonate nella recinzione.
Si riparte, questa volta sull’asfalto, e in una cinquantina di lentissimi chilometri imbocchiamo la strada sterrata che porta alla gola.
Dopo un sali scendi in cui incontriamo anche degli yak, i primi del viaggio, mucche col cappotto, siamo finalmente all’imbocco della gola, circondati da un paesaggio che ricorda la nostra alta montagna. Qui inizia il giro a cavallo, in cui siamo fatti salire sui piccoli cavallini mongoli e condotti da un ragazzo che monta un cavallo alquanto nervoso.
Attraversiamo diverse volte il ruscello che scorre al centro della vallata, flebile ombra del corso d’acqua che d’inverno ghiaccia occupando tutto il fondo valle. Ci sono diversi turisti, ma quelli più interessanti sono animali, tra cui degli uccellini con le ali rosso intenso chiamati arrampicamuri e i pika, una via di mezzo tra grossi topi e piccole marmotte che corrono indisturbate a pochi passi dai cavalli e dalle persone, portando con sé ricchi bottini di erba.
Scesi da cavallo proseguiamo ancora a piedi, dove la gola diventa più stretta, attraversando diverse volte il ruscello e arrampicandoci fra le rocce. Sono sempre di più qui le montagnole di pietra usate come preghiere, con nastri azzurri e bianchi incastrati fra le rocce. La gola è stupenda, alti muraglioni di roccia che svettano verso il cielo. Mi sembra di essere quasi a casa.
Ci inoltriamo un po’ più in là, e ci prendiamo qualche minuto seduti su una pietra, a riposare, riflettere, goderci il momento e l’aria. Per colpa dell’aria condizionata del pullman da Ulaanbaatar mi sono presa un raffreddore che confina con l’influenza, quindi una pausa è d’obbligo anche per non stare troppo male.
Torniamo verso i cavalli, e noto che il mio equilibrio e l’agilità sulle pietre sono già molto migliorate. Basta un po’ di allenamento. Ritorno a cavallo, godendo la vista della valle che si apre.
L’ultima tappa è un piccolo museo all’imbocco della strada sterrata, dove sono esposti esemplari impagliati degli animali presenti nel Gobi. Asini selvatici, capre, pecore, due tipi di cammello, selvatico e non (quello domestico ha il pelo sulle gobbe), tantissimi tipi di uccelli, leopardo delle nevi. Ci sono anche resti fossili di dinosauri e uova.
Fuori dal museo una fila di ger riporta la scritta shop. È un po’ intimidente però dover entrare nella penombra della tenda per pura curiosità e forse non prendere niente. Siamo però attratti dall’unica ger che espone un po’ di prodotti all’esterno. Entriamo e in poco tempo ci facciamo catturare da un set di scacchi con plancia di lana avvolgibile con tanto di contenitore di lana da viaggio. Prit ne prende due per i cugini, mentre io prendo qualche regalino per la famiglia e un cappello da sole con il simbolo che c’è sulla bandiera mongola in fronte.
Si riparte, alla volta di Dalanzadgad, dove troveremo la nostra guest house per la notte. Però prima, un po’ bruscamente, alle 17.30 di pomeriggio Oyuna e l’autista ci mollano dentro un ristorante dicendoci
“Qua fate cena. Vi aspettiamo fuori”
Capisco subito la ragione di tanta improfessionalità: abitano entrambi nel paese, vogliono farci mangiare presto, lasciarci alla guest house e poi tornare a casa un po’ prima del previsto. Non credo tutto ciò sia nel loro contratto e mi innervosisco un po’. Abbiamo cenato per due notti quasi alle dieci di sera, le cinque e mezza mi pare eccessivo. Non facciamo tante storie, però, e in cambio chiediamo di passare anche in un supermercato per prendere qualcosa da sgranocchiare alla vera ora di cena.
Veniamo lasciati con poche cerimonie alla guest house, e scopriamo che l’autista non tornerà nemmeno domani a portarci alla stazione degli autobus, com’era previsto, ma il compito ricadrà sulla padrona della guest house.
La nostra ger è grande, con un letto finalmente matrimoniale e perfino un frigo, usato un po’ troppo, dopo nostra autorizzazione, dai coreani della ger accanto per raffreddare delle birre.
Giochiamo un po’ a carte sotto il pergolato nel cortile, ovviamente perdo la partita, dopodiché facciamo due passi.
Scopriamo l’origine della musica a tratti truzza a tratti melodica e lamentosa che arriva da quando siamo arrivati. Dall’altra parte della strada sorge un parco (forse piccolo parco divertimenti?) il cui ingresso imponente è composto da una facciata a colonne verdi con tanto di led colorati e un t-rex che svetta su tutto.
Diverse macchine sono parcheggiate fuori e molti bambini entrano contenti, forse diretti alla ruota panoramica. Tempo di rientrare, raccontare di questo giorno e prepararsi per la notte. Domani ci aspettano altre lunghe ore di autobus.
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