Giorno 17, verso Kharakhorin cambio a Ulaanbaatar
Che è successo oggi? Poco o niente. Sveglia presto, alle 7.30 siamo sul fuoristrada che ci porta alla stazione degli autobus, a meno di un chilometro. L’unica preoccupazione è questa: domani dovremo partire per Kharakhorin, l’antica Kharakorum, la capitale dell’impero mongolo. Il problema è che si possono comprare i biglietti solo presso la Dragon Station (nome figo) di Ulaanbaatar e ho letto che in alta stagione andrebbero presi con un po’ di preavviso, che non abbiamo.
Ho scritto all’organizzatore di questo tour del Gobi chiedendogli di prenderli, ma è week end e non ha risposto. Per fortuna manna dal cielo mi ha scritto la proprietaria della guest house in cui staremo, chiedendomi se avevamo bisogno dei biglietti. Le ho detto di sì, ma avrò bisogno di internet per continuare la conversazione e darle la conferma definitiva, internet che non ho.
Durante le 10 ore di pullman fino a Ulaanbaatar sono alla ricerca di una sim a ogni stop, e alla fine finisco con l’usare i dati sul telefono. Riesco a mandarle le informazioni che le servono, ma da lì in poi finisco il credito. Il resto del viaggio è abbastanza immemorabile, se non per un vecchietto -nemmeno tanto vecchio- molto poco fermo sulle gambe per malattia o, sospetto, troppe alzate di gomito, che a ogni stop barcolla tra l’erba e finisce irrimediabilmente a gambe all’aria prima che qualcuno corra in suo aiuto.
Altro highlight è la tv in testa al pullman, che riproduce incessantemente video musicali che sono un tuffo nella cultura dei media mongola. Mi auguro che non sia tutto così, che questa sia una fetta che è l’equivalente nostro di Un posto al sole, ma trionfano i buoni sentimenti, i valori tradizionali e una qualità tecnica da tv di provincia. Tantissimi video ambientati nella steppa, nelle ger, tra cavalli che corrono al rallentatore e protagonisti nerboruti.
Un’altra metà celebra la famiglia al chiuso, piazzando bambini e vecchi i davanti a un muro bianco a sbaciucchiarsi -sempre al rallentatore-. I video ambientati nel mondo moderno parlano comunque di amore, tradimento e genitori orgogliosi dei loro pargoli. Il tutto, non dimentichiamocelo, cantato in uno stile melodico che dopo tre canzoni diventa una continua lamentela.
E poi c’è lui, il bambino strabico di nemmeno cinque anni che fa coppia con un ormone grosso venti volte lui -suo padre?- e che canta su una carrozza facendosi trainare da uno yak o sospeso nel cielo facendo espressioni benedette. E i capelli sono tagliati alla moda tradizionale, con uno spesso ciuffo sulla fronte e due ciuffi ai lati, a volte chiusi in due codini drittissimi, mentre il resto della testa è rasato.
Arriviamo, finalmente, a Ulaanbaatar dove facciamo check in un albergo bellissimo, riesco ad avere internet e usciamo presto a fare due passi per sgranchirci. La nostra destinazione è un ristorante coreano -qui è pieno- con buone recensioni ma prezzi non esorbitanti.
Cercando un posto in cui mangiare in zona, non siamo proprio in centro, ci siamo anche imbattuti in un ristorante nord coreano che sembra più uno spettacolo che un posto in cui mangiare. Leggendo le recensioni si parla di telecamere di sorveglianza finte, ragazze che cantano e arredamento in puro stile dittatura, con camerieri tutti originari di Pyongyang.
In effetti mangiamo molto bene e molto, tutto per meno di 10 euro. Altro tratto distintivo è il campanello da premere posto in cima al tavolo. I camerieri qui, all’opposto degli assillanti cinesi, non ti considerano finché non suoni per ordinare. Un sogno.
E poi? Si dorme, dopo aver aspettato fino alle 23 il messaggio di Gaya di conferma: abbiamo i biglietti.
Fuori inizia una tempesta.
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