Giorno 18, Kharkhorin
Il pullman per Kharkhorin parte alle 11 a tre chilometri da qui, quindi abbiamo tempo, possiamo prendercela comoda. Colazione abbondante, che faremo bastare anche come pranzo, chiedo alla signora in reception di chiamarci un taxi per le 10.15. C’è traffico, come ci era stato anticipato, ma in meno di dieci minuti siamo in stazione.
Il viaggio dura circa 5 ore e il paesaggio che vediamo, puntando a ovest, è diverso dal Gobi. Niente alberi, ovviamente, ma colline dolci e più verdi, case più colorate e un accenno di campi qua e là, i primi che vediamo in tutto il viaggio. La tv non ci risparmia nemmeno questa volta, e alza pure il volume.
Le canzoni e i video sono un po’ più moderni ed energetici, alcuni fatti molto bene e ambientati in pieno inverno con tanto di ragazza a cavallo di uno yak, che oltre a offrire uno sguardo sui valori tradizionali, mi fanno vedere un po’ la vita da nomade e invernale.
L’unico stop è in una grossa piazzola affiancata da una fila di ristoranti e negozietti. Il paese si sviluppa alle sue spalle, il primo paese dopo centinaia di chilometri, e il dubbio che i turisti come noi siano il loro unico sostentamento è alto. C’è un gruppo di vitelli che ci guarda incuriosito. Le case sono coloratissime, e un girasole grosso come la mia testa guarda a terra sconsolato.
Kharkhorin è piccola, e ne sono contenta. Con il pullman passiamo davanti al tempio, un immenso recinto di pietra bianca da cui spuntano i tetti decorati. La città sorge all’imbocco di una valle e tutto intorno sono colline e un po’ di pianura. Veniamo caricati in auto e portati alla guest house di Gaya, un insieme di ger che danno su una collina al limitare del villaggio.
Guardando sulla mappa vedo cosa questa collina nasconde: una delle quattro tartarughe di pietra che, puntando sui quattro punti cardinali, erano le porte dell’antica capitale.
Praticamente la ragione per cui sono venuta qui.
Ordiniamo cena per le 20, noodle con verdure e ravioli di verdure, e ci incamminiamo verso la collina, a poca distanza da noi anche altri nuovi arrivati. È subito chiaro il peso dell‘assenza di alberi unito con le piogge. La collina è letteralmente crollata in diversi punti, scavando canaloni e buchi nel terreno alti anche più di un metro. Tra noi e l’inizio del pendio è stato costruito un canalone foderato di cemento per incanalare l’acqua e proteggere il villaggio. Mi sembra di essere dentro il libro Collasso di Jared Diamond.
La salita è interessante anche di per sé, senza pensare all’obiettivo. Vediamo cavallette grigio scuro giganti che volano mostrandoci la schiena rosso acceso e sopratutto inciampiamo in ossa e teschi di cavallo ogni due passi, alcuni dei quali affiorano appena dal terreno.
Incontriamo il primo cumulo di pietre sacre davanti a cui qualcuno ha posizionato dei teschi e un ragazzo giapponese ci approccia, guida alla mano, chiedendoci ripetutamente dove possiamo trovare le Turtle Stone”. Riesco a trovarla sul navigatore offline e glielo indico, lui parte e anche noi proseguiamo in quella direzione.
In cima alla montagna c’è il cumulo di pietre più bello che io abbia mai visto.
Macabro, forse.
Oltre alla pietre al suo centro svetta un palo ricoperto di nastri e bandierine, come ho notato essere tipico i questa zona. Aggiungo una bandierina che ho trovato mezza sepolta nel terreno. Ma è dall’altro lato del cumulo che scopro le decine di teschi di cavallo e corna di renna posti ai piedi delle pietre e avvolti in nastri blu. Non penso che i teschi siano necessari, ma vista la grande quantità nella zona deve essere diventata una tradizione porli ai piedi dei cumuli.
La forza spirituale, e sciamanica, della zona è fortissima, e alle spalle del cumulo le nuvole grigie si aprono e la luce del tramonto inizia a filtrare.
È uno spettacolo unico.
Dall’alto vediamo il tempio, la città, la valle. Kharkhorin sta diventando uno di miei posti preferiti in assoluto.
Ci arriva presto una voce “Turtle Stone!”.
È il ragazzo giapponese che ha trovato la tartaruga a qualche decina di metri imprigionata in una recinzione di metallo. Un cartellone ci racconta la sua storia: 9 tonnellate, portata facendola scivolare sul fiume ghiacciato e, forse, visti di pavoni sul suo dorso, sorgeva vicino al palazzo di un funzionario detto palazzo del pavone. Questa punta a est. È piccola, e sul suo dorso svetta il simbolo presente anche sulla bandiera mongola, il soyombo.
Si è quasi fatta ora di cena, però, e mi riprometto di tornare con la macchina fotografica domani sera, stessa ora. Scendiamo di buona lena, trovando una vecchia pista completamente scavata dalle piogge. Il cibo è buono, l’atmosfera giovane, il servizio ottimo. Sarà bello passare tre notti qui. Andiamo a dormire, stanchi e sereni, sapendo che domani non ci sono veri piani, solo farci stupire da Kharkhorin.
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