Giorno 19, Kharakhorin
Ce la siamo presa comoda. La mattina doccia, scrittura, colazione con i biscotti e la marmellata che abbiamo comprato seduti al tavolino basso della nostra ger.
Dopodiché si parte un po’ a caso per il paesino, tagliando per i prati e puntando, infine, per il museo della città. Museo fatto benissimo. Racconta la storia della Mongolia e dell’area dall’età della pietra, mostrando manufatti, steli incise in arabo, sanscrito e mongolo, e un bellissimo scambio epistolare tra il papa e un Khan che si può riassumere in:
-Fatti battezzare perché io ho ragione e l’unico dio è Dio con suo figlio Gesù
PS Perché hai invaso Ungheria e Cechia?
-Non ho capito bene, chi ti ha detto che il tuo dio è il vero Dio? L’unico dio che conosco dice che la Mongolia deve conquistare tutto il mondo, tu non ti sottometti e mi uccidi pure gli ambasciatori, quindi io ti ammazzo ungheresi e cechi, stacce.
Dopo il museo, un po’ a caccia di cibo, finiamo davanti al monastero Erdene Zuu che più che un vero monastero è un’immensa cinta muraria che abbraccia al suo interno quasi una decina di templi di diverso credo.
Di fronte, però, una lunga fila di negozietti e ristoranti.
Assillanti.
Non ci si può fermare mezzo secondo a pensare davanti a uno di questi che ci si ritrova davanti un menù o un venditore che ti invita ripetutamente a entrare nel negozio. Menù ovviamente illusori, perché questo non c’è, quello nemmeno. Finisco a stomaco vuoto perché non ce la faccio proprio più col gusto della carne e del latte mongoli. Sono troppo forti, e imperniano qualsiasi cosa tocchino, diventa quindi impossibile farsi anche un piatto di verdure. Ma sono gusti personali.
Il giro del monastero dura qualche ora perché entriamo in tutti gli edifici, anche i più piccoli. Il buddismo principale qui è tibetano, con figure quasi demoniache, le loro teste decorate con teschi e l’onnipresente ruota dell’ottuplice sentiero. Sento una guida parlare della vecchia tradizione riguardante i morti: i corpi venivano lasciati all’aperto, nella natura. Se il cadavere veniva mangiato dagli avvoltoi, eri stato una buona persona, se dai cani cattiva. Adesso i mongoli si sono adeguati a sepoltura o cremazione.
L’area è ancora popolata da monaci, avvolti nella tipica veste arancione. Molti di loro sono giovani. Esplorando il retro di un edificio ne vediamo tre o quattro giocare: cercano di lanciare un pezzo della loro veste sull’abbaino di una finestra. Quando vedono che li sto fotografando si mettono a ridere e chiamare. Dentro una tenda-tempio due monaci pregano davanti a delle donne venute, credo, per un consulto.
Hanno voci roche, seduti a un basso tavolo.
Alla loro destra un ragazzino-monaco sta leggendo, o provando a leggere, a voce alta un testo. Incontrata una perplessità si rivolge al suo maestro, che gli indica il giusto modo. Dentro la tenda ci sono sia turisti che credenti, sia persone che sono entrambi. Dopo una foto all’altare o al banchetto che vende oggetti religiosi, si inchinano davanti alle statue delle divinità.
Camminando lungo i bastioni delle mura incrociamo un gruppo, una famiglia, ogni persona con in braccio quello che sembra del tessuto arrotolato giallo, o un cuscino. Ad ogni bastione, sormontato da una stupa, uno dopo l’altro tutti si fermano e poggiano la fronte contro il muro, per poi ricominciare a camminare.
Uscendo dal monastero dal lato opposto ritroviamo in un prato, un ammasso di pali dell’elettricità si staglia all’orizzonte e davanti a loro i resti del palazzo di Ogodei, in realtà un tempio, e una seconda Turtle Stone, questa volta libera da recinti e costrizioni. Anzi, uno c’è: un lunghissimo banchetto di souvenir che quasi a mezzaluna abbraccia la tartaruga a un paio di metri di distanza.
Non si scampa mai dallo shopping.
Non mi sembra ancora vero di aver toccato le tartarughe di Karakhorum, le porte di uno degli imperi più grandi di sempre.
Ritorniamo alla via dei negozietti, dove passeggiano mongoli in costume tradizionale affittato per qualche minuto (alcuni copricapi femminili hanno chiaramente inspirato Star Wars), e gigantesche aquile stanno appollaiate ad altezza uomo fuori dai negozi.
Compro dei guanti di lana di yak, un sacchetto di velluto con dentro le ossa di caviglia di non so che animale (forse capra?) usate qui per la divinazione e altri regali. I prezzi sono sempre comunque bassi, ma più alti di quelli delle ger-negozio del Gobi.
Torniamo a piedi alla guest house e siamo accompagnati da cui cani, due cuccioli molto cresciuti, ormai adolescenti, che ci abbandonano solo quando vengono inseguiti da un altro loro simile. Torniamo passando per i prati, incontrando altre profonde spaccature nel terreno.
È difficile raccontare a parole questa giornata. È stato un giorno turistico, di cose viste, che non si possono elencare. È stata una giornata di approfondimento, di conoscenza del territorio, della sua storia, dell’effetto wow vedendo il plastico della città nel 1300 con quartieri musulamani, cristiani, quello delle ger dei mongoli, chiese, moschee, templi taoisti e buddisti, un esempio di integrazione che perfino oggi ci sogniamo.
È stata una giornata di gioia per i colori del monastero, i blu squillanti, i rossi dei soffitti, i gialli delle stoffe, anche il bianco delle stupe. Una giornata di ammirazione per la tartaruga, seduti a un passo da lei, guardandone le zampe, il muso da bestia, l’erba che è cresciuta alla sua ombra.
Grazie, Kharkhorin.
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