Giorno 20, Kharkhorin
Oggi, forse per la prima volta in questi quasi venti giorni, mi sono riposata. Dopo un po’ di ricerche abbiamo appurato che non ci sono tour giornalieri della valle dell’Orkhon, che sorge alle spalle di Kharkhorin, e abbiamo optato per una giornata lenta.
Le prime ore della mattinata, in cui ci alziamo anche senza sveglia verso le otto, grazie all’orologio interno ormai settato, sono passate a starci vicino. Ridere, scherzare, chiacchierare a letto, senza fretta. Viaggiare in compagnia, e sopratutto in coppia, è un affare delicato, e lo diventa sempre di più anno dopo anno, quando ormai sappiamo sempre meglio chi siamo, cosa vogliamo e come lo vogliamo. Nel nostro caso siamo come un ingranaggio ben oliato, come il nostro incastro è quasi perfetto a casa, così lo è in viaggio, e mi ritengo fortunatissima.
Idee simili, interessi simili, piani simili, occhi, in un certo senso, uguali. Non mi sembra nemmeno di essere veramente in compagnia, tanto siamo in accordo, tanto non inciampiamo l’uno sull’altra. Mi ritengo terribilmente fortunata. Ma nonostante nelle avventure e scoperte giornaliere tra noi va tutto bene, dopo dieci giorni non stop abbiamo bisogno di tornare a noi stessi, alla coppia, a dei momenti tra di noi che non siano proiettati all’esterno. Fare mente locale, riposarsi e chiacchierare in una ger così bella, poi, rende tutto migliore.
Ecco quindi una mattina serena in cui recuperare le fila, che ci porta poi a un’uscita prima di pranzo sotto un cielo quasi limpido a visitare l’unica cosa dell’area che ci mancava: la statua fallica. Sì, è proprio quello che il nome fa pensare. Leggenda vuole, a detta del cartellone posto vicino alla statua, che i monaci del vicino monastero ci provassero troppo con le ragazze del villaggio.
Il maestro, disperato, fece quindi erigere questa statua in una zona della valle che ricorda un organo genitale femminile per esorcizzare le voglie dei monaci e allo stesso tempo invocare la fertilità. Le due cose sembrano un po’ antitetiche, e il tutto ricorda di più un culto della fertilità più antico.
Comunque la statua è lì, e viene cavalcata da un papà mongolo venuto in visita con moglie e pargolo di pochi anni a seguito. Parte della tradizione o solo goliardia?

La fertilità sembra aver funzionato per le marmotte perché nei pochi minuti in cui siamo in zona ne appaiono almeno tre o quattro, più piccole delle nostre, ci corrono quasi sui piedi e non riesco a non pensare alla potenziale distruzione che potrebbero portare. Giusto qualche mese fa ho letto la notizia di una coppia mongola che si è presa la pesta bubbonica mangiando una marmotta cruda. Ahia.
La fase dopo è pappa+acquisti all’ombra del monastero, lungo la via che ricorda un po’ i saloon del far west. Ho un po’ di souvenir da prendere per la famiglia e la ragazza che mi ospiterà in Lettonia. E per me. Se in Cina ho preso una cosina piccola piccola, ma bellissima, qui mi sbizzarrisco un po’ di più. Sono molto curiosa di vedere la Siberia, ma la Mongolia è il posto in cui ho passato più tempo, il posto più nuovo per me, più speciale fin’ora, quindi decido di prendere qui i regali.
Evitando di bruciare la sorpresa per i regali, in un negozietto che ieri non avevo visitato ho trovato un artigiano. Un uomo ormai anziano con gli occhi scuri cerchiati di azzurro che intaglia e decora il legno. Ho comprato un bellissimo cucchiaio intagliato a forma di muso di cavallo e con Esprit abbiamo preso una marmottina intagliata in cui, tra le bracciane, l’artigiano ha infilato un ciuffo di erba profumata.

La useremo come porta incenso a casa. Cavallo e marmotta costano 10.000 e 15.000 tugrik l’uno, quindi circa 3,5 e 5 euro. Troppo poco, per lavori del genere. Comprare qualcosa di così personale, non fatto in serie come i tanti oggetti di poco valore che inondano questi negozi, mi fa sentire bene e anche meno in colpa per un altro uomo che vende le sue opere a poca distanza.
Abbiamo visitato il suo negozio ieri. Appena entrati ci ha chiesto di dove siamo. Sentita la risposta ci ha detto in italiano “Io sono pittore”. Ed è così, dipinge personaggi mongoli, tra cui sovente Chinggis Khan, a cavallo di cavalli, renne, in combattimento, in pose contratte, quasi deformi, richiamando allo stesso tempo lo stile tradizionale.
Ci ha mostrato il pezzo su cui stava lavorando e ci ha raccontato che lavora sul cotone. E che i suoi pezzi sono originali, con tanto di marchio. Purtroppo l’opera che mi piaceva di più, uno sciamano a cavallo di una renna, costava troppo per le mie tasche e avrei avuto paura di rovinarla nel resto del viaggio. Ho rinunciato un po’ a malincuore.

Il resto degli acquisti è stato divertente, un andirivieni da un negozio all’altro paragonando i prezzi e facendosi vendere gli oggetti da bambine che non hanno più di 12 anni ma sono già leste e spigliate, pronte a mostrarti il prezzo sulle grandi calcolatrici presenti in ogni negozio e ha darti un sacchetto in cui mettere gli acquisti mentre la nonna guarda seduta in un angolo.
Che altro oggi? Poco niente. Pomeriggio nella tenda, a guardare documentari scaricati da Netflix prima di partire, per poi passare a bersi qualcosa di caldo nella sala comune della guest house continuando le lezioni di scacchi, iniziate stamattina sotto il pergolato davanti alle ger. Sto migliorando. Prima di cena ultima passeggiata sulla collina di fronte alla guest house, facendo slalom tra capre, cavalli e mucche e saltando -ed entrando dentro- i canyon scavati dall’acqua.

Ceniamo e giochiamo ancora un po’ giusto in tempo per sentire la pioggia scrociare fuori dalle finestre e usciamo davanti a un cielo rosso di tramonto e screziato dalle nuvole e la pioggia in arrivo. Nella nostra assenza le ragazze della guest house hanno coperto il buco centrale della ger, di solito di plastica trasparente in modo che entri la luce, contro la pioggia, come hanno fatto ieri. Aspettiamo che arrivi l’acqua, anche se significa l’ennesima notte senza stelle cadenti. Domani si torna a Ulaanbaatar.
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