Transmongolica day by day 22, Ulaanbaatar
Il ventiduesi giorno, tre settimane di viaggio, è pianificato come segue:
- museo dei dinosauri
- museo nazionale
- tempio
Ieri sera, tra le riflessioni serali fatte con Esprit è emersa la mia difficoltà a vivere il momento. Dover gestire un viaggio così, con tempistiche, cose da fare, orari da rispettare, mi rende sempre proiettata nel futuro. Inizio una cosa sperando già che finisca perché sto già pensando a quella dopo.
O sono preoccupata per quella dopo.
Ho provato a rilassarmi già ieri, e il mantra di oggi sarà: una cosa per volta, qui ed ora.
Ci provo, e ci riesco per quasi tutto il giorno, se non quando tengo d’occhio l’orologio al fine di non restare chiusa dentro il tempio con l’orario di chiusura che si avvicina.
E, seconda prova, lasciar andare il controllo. Mi faccio guidare da Esprit oggi, che sia lui a controllare dove sono i musei, come raggiungerli (il mio senso dell’orientamento sta lentamente morendo), affidarmi a qualcuno senza dover sempre essere in tensione. Quante cose ti insegna un viaggio.
Il museo dei dinosauri, per gli amici museo dei dini, è piccolo e carino, come una mostra di provincia. Sono tanti i dinosauri trovati in Mongolia, tipici di questa zona, tra cui il cugino del T-Rex, il Tarbosauro Baatar.
Baatar vuol dire eroe, la risposta mongola a Rex. E sì, Ulaanbaatar ha a che fare con gli eroi: dopo la rivoluzione socialista prese questo nome che significa eroe rosso.
Nella sala d’ingresso veniamo accolti da una guida/inserviente con un ottimo inglese che ci dà il benvenuto e poi lascia la parola a un ragazzo tirocinante che ci indica il percorso. Il suo inglese è stentato e con un pesante accento, ma mi fa tenerezza sopratutto quando la guida ripete quello che lui ci ha detto e aggiunge “Sorry about that”, quasi sgridandolo.
Al centro svetta lo scheletro del Tarbosauro Baatar e la cosa più buffa, mongola e divertente è la didascalia illustrata che mette in paragone questo dinosauro con i cinque animali da allevamento mongolo: cavalli, mucche, cammelli, capre e pecore. Con un grafico altezza/lunghezza vediamo che servono sei cammelli per equiparare il peso dei dinosauri e molte molte capre una sull’altra.
Nel resto del museo sono esposti scheletri, uova e ricostruzioni di mostri preistorici in un percorso che va dall’origine della vita fino ai mammiferi dell’era glaciale. Nello shop acquisto un libricino su fiabe e leggende mongole illustrato per la ragazza che mi ospiterà in Lettonia e il suo bambino.
Pranzo, e poi è la volta del museo nazionale, dove passeremo più di tre ore. Il piano terreno è dedicato agli imperi prima di quello mongolo. Unni, Uiguri, Kidal, hanno plasmato ciò che è la Mongolia oggi.
Il secondo piano inizia con una mostra sugli abiti tradizionali mongoli, che adoro.
Colori sgargianti, gioielli, vesti elaborate, è una gioia per gli occhi e per la fantasia. I costumi sono suddivisi anche territorialmente, ed è interessante guardare le differenze culturali e geografiche riflettersi anche nell’abbigliamento.
Terzo piano, ecco i gran Khan di cui tutti sappiamo. Una ricostruzione a dimensioni reali di un soldato a cavallo, entrambi bardati fino ai denti, dà veramente un’idea della forza distruttrice dell’esercito mongolo. La parte più interessante, e meno conosciuta, è però forse quella sul novecento.
La libertà della Mongolia è durata fino al settecento, quando la dinastia Qing regnante sulla Cina ha deciso di allargare i propri confini a nord. Solo nel 1911 la Mongolia divenne indipendente, poi solamente autonoma in seguito a dei trattati, ma irrimediabilmente divisa a metà: ancora oggi la Mongolia Interna è territorio cinese.
Nel 1921 ecco la vera indipendenza, con una rivoluzione socialista. Pur non essendo mai direttamente sotto l’URSS, la Mongolia ne subì fascino e influenza fino agli anni ‘90. All’inizio il socialismo diede una spinta al Paese: grazie a un nuovo capillare sistema educativo la scolarizzazione si alzò decisamente dal terribile 6% precedente, e il numero di animali allevati si raddoppiò.
Il rovescio della medaglia fu però forte: un solo partito e, in seguito alla minaccia di invasione giapponese, purghe con arresto di almeno 30.000 persone accusate di essere spie del Giappone o controrivoluzionari.
Quest’area, come in realtà tutte le sale del museo, trasuda spirito mongolo, la cultura unica e speciale che è ancora forte in questo Paese. Chicche come macchine da scrivere con i caratteri mongoli e bandiere con i simboli del Paese parlano di un luogo così lontano da casa mia, ma così unico e con un’identità propria che ancora non si è fatto del tutto assorbire da ciò che c’è fuori.
La terza tappa, un po’ di corsa, è il tempio Choijin che sorge vicino alla piazza principale della città.
Tempio buddista, ma come tanti in Mongolia di stampo tibetano. E terribile.
Deinos, per dirla alla greca.
Dimentichiamo i sereni Buddha illuminati, le divinità qui rappresentate nelle molte statue sono terribili mostri dalle unghie affilate (anche nei piedi), con corone di teschi. Attorno all’area centrale del tempio, guardando in su, stoffa tagliata a forma di essere umano, anzi, di pelle di essere umano scuoiato e sanguinante, pende dal soffitto, e dietro di essa pitture di teste con occhi fuori dalle orbite, arti sanguinanti e organi interni. Il tutto affogato in una miriade di colori sgargianti.
Sono confusa, non so cosa provare. Furia? Paura? Eccitazione? Forza? Di sicuro non ne sono indifferente.
Dopo questa ondata sensoriale mi ritrovo però ad aspettare Esprit fuori da uno degli edifici del tempio, guardando una decina di passerotti mangiare nel prato, nascosti tra l’erba, a saltellare quasi all’unisono per passare al pasto successivo. Una piccola, delicata danza, dei punti marroni che emergono ritmicamente, dolcemente, del verde.
Sono successe altre cose oggi, giro al supermercato (avvistata un’altra nonnina che offre di pesarti con la sua bilancia a bordo strada), cena, uscita in un pub irlandese bellissimo.
Ma forse voglio rimanere con la mente lì, in un tempio assurdo e terribile, circondata da grattacieli, il sole che inizia a tramontare, i passerotti e la loro salvifica danza.
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